Forse a causa delle mie lontane origini nel campo della pittura, non mi sono mai piaciute le cose ripetitive anche se belle. Sin dai primi approcci alla liuteria mi sono spesso chiesto quale avrebbe dovuto essere il messaggio che col mio lavoro avrei voluto comunicare ed uno dei cardini di questa ricerca era rappresentato dalla scelta del legno. Tralascio per il momento il discorso sul piano musicale che lascia poca scelta in alternativa all’abete rosso e mi soffermo sul legno utilizzato per tutte le altre parti. Devo purtroppo dire che ormai quell’acero di monte che si può osservare a tutte le fiere-mercato e che si ripete bellissimo sempre inevitabilmente uguale, mi ha un po’ stancato. Il motivo principale dell’affievolirsi del mio interesse nei confronti di questo legno di prima qualità spesso venduto a peso d’oro, scaturisce più che altro dal fatto che producendo strumenti soltanto con esso si rischia di omologare il prodotto relegandolo in un contesto sempre più artigianale e sempre meno artistico. Non intendo sottolineare il fatto che il termine “artigianale” è spesso meno importante del termine artistico” ma tanto è. A lungo andare addirittura si rischia di standardizzare il prodotto fino ad equipararlo ad un prodotto industriale e questo sarebbe quantomeno deprecabile. Mi rendo perfettamente conto che se venisse fatto esattamente il contrario, scegliendo cioè legni diversi sia come essenza che come taglio o marezzatura alla fine sempre di standardizzazione si tratterebbe. Anche io mi rendo conto che inaugurare una nuova moda scatenando la ricerca di legni particolari e leziosi porterebbe alla fine al ritorno per reazione contraria all’acero di monte tradizionale. Mi sento allora in dovere di proporre non una rivoluzione nella scelta dei legni, bensì una integrazione all’acero pseudoplatanus con legni che negli ultimi decenni sono stati messi un po’ da parte quali le varie sottospecie di aceri campestri italiani, il pioppo, il salice e via di seguito. Ritengo che la storia stessa della liuteria italiana sin dai primordi avvalori una scelta del genere in quanto i nostri ben più famosi antenati hanno spesso utilizzato legni del genere senza incorrere in particolari critiche e soprattutto senza fare come si suol dire buchi nell’acqua. Produrre una percentuale anche relativamente bassa di strumenti con legni autoctoni e più rari, oltre ad aumentare lo spessore artistico a discapito di quello artigianale porterebbe di riflesso anche a contrastare con più efficacia la concorrenza con l’estero che sta ormai diventando insostenibile. Ovviamente bisognerebbe che queste scelte, coraggiose ma non troppo, venissero aiutate anche a livello di giurie, di pubblicazioni o di pubblicità, considerando l’uso di legni alternativi al pari di quello dell’ormai conosciutissimo acero di monte. Penso che una particolare marezzatura personalizzi in maniera inequivocabile lo strumento al pari della lavorazione o della verniciatura, tanto da avvicinare il nostro lavoro ad un contesto più vicino all’arte. Ritengo anche che non sussistano allo stesso tempo preoccupazioni nei riguardi delle capacità sonore dello strumento in quanto ogni liutaio degno di questo nome sa perfettamente quali variazioni apportare a bombature e spessori in rapporto alle caratteristiche fisiche del legno usato. Lavorando in questo campo si arriva col tempo a contatto con strumenti costruiti da vari liutai in epoche diverse ed in svariati paesi e si possono apprezzare strumenti costruiti con legni per così dire non canonici secondo le attuali tendenze di mercato, in ogni caso qualora siano stati rispettate le regole auree della liuteria non esistono differenze di suono fra le varie essenze legnose e tanto meno fra marezzature e venature del legno più fantasiose. Non è mia intenzione contrapporre ma integrare per valorizzare la ricchezza dei nostri prodotti e sono intenzionato a valorizzare il legno italiano, d'altronde i liutai americani non sono sicuri che il legno dei loro abeti e dei loro aceri sia all’altezza di quello europeo? Personalmente utilizzo ogni tipo di acero dallo pseudoplatanus al platanoides, per arrivare al campestre o italico che si presenta sotto forma di almeno tre sottospecie. |